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I "Chuetas" di Majorca

II Chuetas di MaiorcaI rappresentano un caso diverso dal tipico criptogiudaismo. Qui si ha a che fare con un élite di cittadini, che da secoli sono cattolici, ma nel loro ambiente sono ancora discriminati in quanto discendenti di ebrei.Col termine chuetas, in catalano xuetes, si designa la minoranza sociale a Palma di Maiorca di coloro che discendono dagli ebrei maiorchini. Il nome è derivato dal termine catalano xulla che significa "pancetta", ed è simile quindi al vocabolo spagnolo marrano che vale "maiale": il divieto di mangiare carne di maiale viene usato per etichettare il gruppo, delle cui abitudini alimentari ci si fa scherno. A Palma si dice inoltre xuetò un diminutivo di xueo ossia "ebreuccio".Riguardo la storia dei chuetas, questa non si discosta molto dal resto degli ebrei di Spagna. All'indomani della conquista cristiana dell'isola avvenuta nel 1229, venne eretto un quartiere ebraico, che prese il nome di call dall'ebraico kahal "comunità". A partire dal 1453 gli ebrei di Maiorca si convertono in blocco al cattolicesimo. Anche qui come altrove ci furono casi di criptogiudaismo, ma l'inquisizione si concentrò maggiormente sui criptomusulmani, e successivamente sui luterani. Sino al 1675 a Maiorca non ci fu alcun processo per comportamenti giudaizzanti e i discendenti degli ebrei vissero come normali cattolici. Fino a che ad un certo punto su di loro si riversò una serie di accuse e di condanne e si scoprirono casi di presunto criptogiudaismo; l'inquisizione sottopose alcuni sospetti a durissimi interrogatori. Messi sottopressione e torturati, gli imputati denunciarono altre persone, così la vicenda si estese sempre più. Fin che non si arrivò al 1691, data in cui vennero disposti quattro autodafè, con notevole interesse della popolazione. I condannati vennero trascinati per le vie della città, fin dove furono disposti i roghi.       Ai condannati vennero confiscati tutti i beni.Inoltre i condannati dovevano indossare un particolare abito, chiamato sambenito di colore diverso a seconda della colpa a loro imputata. Quelli che si riconciliavano dovevano portare in pubblico il sambenito per tutto il tempo deciso dal tribunale dell'inquisizione. I sambenito di coloro i quali erano invece condannati a morte, venivano esposti in chiesa, ad eterna memoria della loro ignominia. In questo modo venivano marchiati a fuoco per generazioni, anche i discendenti di quelli finiti sul rogo. I sambenito dei criptogiudei maiorchini vennero esposti nella chiesa dei domenicani il cui ordine ebbe un ruolo particolarmente attivo in tale processo.Fin qui nulla di diverso dal resto della Spagna, se non che sempre nello stesso anno (1691), un gesuita del luogo, pubblicò un libro "La fede trionfante", in cui descriveva dettagliatamente le morti dei condannati. 

Inoltre l'autore di tale libro indugiò particolarmente sui dettagli ci ciascun condannato citando il nome e persino il soprannome familiare, tanto importante in Spagna. In questo modo l'avido lettore potè apprendere nero su bianco chi erano "quelli là". Tale libro diventò nei secoli un bestseller. L'ultima ristampa è datata 1931. Purtroppo il libro contribuì in modo decisivo all'isolamento dei chuetas rispetto al resto della popolazione maiorchina.I chuetas quindi non si distinguevano in nulla dagli altri abitanti di Palma, né dal punto di vista religioso, né etnico, e né linguistico. Erano normali cattolici che non sapevano nulla di ebraismo, ma che furono sempre etichettati come discendenti delle vittime dell'inquisizione del 1691, fin quasi ai giorni nostri.   Tre fattori furono determinanti per la loro emarginazione: il nome, il luogo di abitazione e i legami familiari.Il nome era l'aspetto più importante: chi portava il nome di una delle quindici famiglie condannate nel 1691, apparteneva automaticamente ai chuetas. Questi nomi ad esempio erano Fuster o Mirò, i quali sono del tutto privi di caratteristiche specifiche o non rimandano ad alcuna radice ebraica.     I nomi hanno un potere evocativo quasi magico.Il secondo fattore determinante era il quartiere della città in cui si abitava, il quale era un tratto della strada che attraversava la città vecchia, che venne chiamato semplicemente el carrer "la strada". Si trattava di un ghetto senza muri materiali: chi viveva lì era macchiato per sempre.Infine il terzo fattore fu l'endogamia. I maiorchini di buona famiglia evitavano di legarsi ai chuetas. Nella letteratura spagnola ci sono storie di amori impossibili tra nobili decaduti e ricche donne chuetas. Nonostante il loro amore, la relazione falliva sistematicamente a causa dei pregiudizi della società.E veniamo ai giorni nostri, da un sondaggio svolto dall'Università delle Baleari, risultò che ancora nel 2001 un terzo della popolazione riteneva sconveniente la conoscenza di un chueta. Ma in seguito all'apertura della Spagna al turismo di massa e alle relazioni internazionali, tutti questi fattori appena descritti persero di significato.

È interessante la storia di un discendente chueta tale Nicolau Aguilò ( uno dei quindici cognomi ), che nel 1977 emigrò in Israele, studiò in una yeshivà, e in seguito nel 1991 divenne rabbino: il primo rabbino di origini maiorchine dopo cinquecento anni.Essere un chueta oggi non è più un disonore semmai il contrario. Dopo secoli di rimozioni, i chuetas stanno riscoprendo il loro passato ebraico, attraverso studi, convegni, manifestazioni. Per concludere i chuetas sono l'esempio evidente del condizionamento sociale, nel corso della storia, dell'essere ebrei.

 

David Fowler

 

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